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Razionalità, creatività e comunicazione efficace – Intervista a Giuseppe Mazza

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Razionalità, creatività e comunicazione efficace – Intervista a Giuseppe Mazza

E’ un onore ospitare sul nostro blog Giuseppe Mazza, uno dei più importanti copywriter italiani, nonché docente universitario e fondatore di Tita, nota agenzia pubblicitaria con sede a Milano.

L’intervista è stata un’ottima occasione per parlare di argomenti affini ai Viaggi di Tels come sostenibilità e mondo del lavoro con un professionista di notevole esperienza nell’ambito della comunicazione e della creatività, due life skills  essenziali nel mondo di oggi, che il Metodo Tels™ mira a sviluppare.

Ci scusiamo per la lunghezza inusuale di questo post, ma ascoltare e leggere Giuseppe Mazza è un tale piacere che ci siamo lasciati trasportare… buona lettura!

L’intervista

Innanzitutto, vorremmo ringraziarti per la tua disponibilità. Potresti spiegarci come hai iniziato a occuparti di pubblicità?

Mi sono avvicinato alla pubblicità con molto sospetto. Parliamo di quasi venticinque anni fa, ma in Italia spot e affini erano in sostanza quello che sono ancora adesso, una specie di bitume linguistico che impasta parole e immagini svuotandole di significato. Da fuori era quasi impossibile cogliere il fascino e le possibilità di questo linguaggio. Io però volevo lavorare scrivendo e quest’ambiente si rivelò il più accogliente, il più curioso del talento.

Per fortuna ho iniziato in un’agenzia come Saatchi & Saatchi (agenzia di pubblicità tra le più grandi e famose nel mondo, ndr) – allora davvero un Bengodi creativo – dove ben presto i dubbi iniziarono a diradarsi. È lì che ho scoperto certe meravigliose campagne internazionali, formidabili per acume e rispetto dell’intelligenza del pubblico. E poiché già allora mi piaceva la società di massa, perché io credo che la modernità resti, nonostante tutto, un’epoca di conquiste straordinarie e che il linguaggio pop sia denso di poesia autentica, per me fu una gioia capire che era possibile rimanere in questo mondo senza tradire se stessi. Ora avevo modelli alti e riferimenti di stile precisi.

Credo che lavorare, ognuno coi propri limiti, al nesso tra democrazia e comunicazione sia un modo più che degno di guadagnarsi da vivere. Perciò andai avanti, divertendomi molto e vedendo con piacere che le mie idee acquistavano senso. Ed eccomi qua: da quest’anno la mia agenzia lavora solo su progetti di pubblico interesse. Se ci pensi, una scelta del genere è la naturale conseguenza di tutto il discorso che ti ho appena fatto. 

Quali sono i maestri e i modelli che ti hanno ispirato nel corso della tua carriera? E quanto è importante avere un punto di riferimento dal quale trarre ispirazione?

I primi maestri sono stati quelli che ho conosciuto in agenzia, cito Guido Cornara e Roberta Sollazzi tra i tanti. In generale, e questo riguarda tutte le persone con le quali lavoravo allora, ero colpito dal grado di tensione che si respirava intorno al dettaglio, dalle polemiche sulla punteggiatura, su un colore o sulla scelta di uno speaker.

Insomma, per me ha avuto un grande significato respirare un’autentica etica del lavoro applicata all’espressione creativa e direi anche assistere a un certo dolore personale che percepivi quando le campagne, per un motivo o per un altro, venivano distorte, deformate, private di valore. Si parla spesso dell’ego dei creativi per condannarne le fisime, ma non si tratta solo di bizze: credo che cose simili possano essere dette solo da chi non ha mai davvero amato questo mestiere, e non ha mai conosciuto il piacere di donare al pubblico una forma riuscita, la libertà di un’idea nuova, una scelta di gusto che opponga il bello alla sciatteria. Quell’agenzia fu una grande scuola. Poi scoprii Bill Bernbach, ma immagino che nel corso della nostra chiacchierata avremo modo di parlarne.

Infatti, ci arriveremo presto… Ma prima vorremmo parlare della figura del pubblicitario, spesso definito come un “creativo”. A tale termine si tende ad associare l’immagine del pubblicitario che, con la sua matita in mano, all’improvviso viene folgorato dall’Idea Geniale. In realtà, in una tua passata intervista spiegavi il grande lavoro di squadra, la passione e la tenacia che stanno dietro al cosiddetto “lampo di genio”.

Questo riflette il nostro Metodo Tels, che mira a far conoscere ai ragazzi le proprie emozioni – il “rosso” del nostro metodo – sviluppare la creatività (giallo) e la capacità di lavorare in armonia con gli altri e con l’ambiente (verde) senza sottovalutare l’importanza del pensiero logico (blu). Il risultato che ci proponiamo di raggiungere è identificato dal silver, che contraddistingue i giovani cittadini globali in grado di contribuire con vite felici a un mondo migliore. Tu come hai raggiunto il tuo silver partendo dal giallo, la creatività, appunto?

Beh non so se l’ho raggiunto, ma sperando di sì provo a risponderti! Di certo il cosiddetto pensiero creativo non è mai privo di regole. Chiunque abbia lavorato in creatività sa che i vincoli gli sono indispensabili: non può esistere una grande campagna che non sia agganciata a un concetto razionale di partenza. Qualcuno, mi pare Pirella, diceva che l’idea pubblicitaria è razionalità survoltata, come dire che la ragione deve essere attraversata da una scossa elettrica.

Mi pare il perfetto incrocio tra il giallo della creazione e il blu del pensiero logico di cui parlavi. Curioso, “Piccolo giallo e piccolo blu” è anche il titolo di un grande libro per l’infanzia di Leo Lionni, il quale creando una storia intorno a due macchie di colore firmò un vero inno alla commistione e al nuovo. Quanto al verde dell’ambiente, se ti riferisci al contesto lavorativo direi che la mia rievocazione dell’agenzia come regno dell’etica del linguaggio la dice lunga. Se invece per verde intendi avere cura del mondo che ci ospita, sono felice di dirti che con le nostre scelte in Tita stiamo sviluppando proprio una grande attenzione a una comunicazione sostenibile, partendo anche dai supporti sui quali è stampato il nostro lavoro.

…Ed eccoci a Bernbach. Qualche anno fa è uscito un tuo libro: “Bernbach, pubblicitario umanista,” dedicato al grande pubblicitario americano del XX secolo. Alcuni forse storcerebbero il naso leggendo quest’accostamento. Qual è stata la lezione di Bernbach e qual è la tua esperienza in questo senso?

Ancora prima gli ho dedicato una rivista di studi del linguaggio pubblicitario che si chiamava con il suo nome, Bill Magazine. Lo considero un grande del secolo scorso, alla stregua di Chaplin o dei Beatles, personaggi che ci hanno indicato la magia del linguaggio pubblico. Quanto al termine “umanista”, chi conosce la storia del cinema sa che è stato accostato per esempio anche grandissimi registi come John Ford o Joseph Mankiewicz: il mondo della comunicazione – quello che spesso con intento dispregiativo è definito “industria culturale” – è pieno di figure che hanno cercato di raccontare l’uomo e di introdurre nella macchina produttiva la variabile umana. Bernbach è tra questi.

Nel libro che ho appena pubblicato, “Cinema e Pubblicità – La relazione sorprendente“, continuo a indagare anche in questa direzione, parlando inevitabilmente anche del nostro Bill. La sua lezione principale mi pare stia nell’aver dato forma a due soggetti: il comunicatore responsabile da un lato e il pubblico consapevole dall’altro. Prima di lui, comunicare e produrre campagna pubblicitarie era un gesto autoreferenziale. Dopo Bernbach, la pubblicità sa di poter diventare un linguaggio di civiltà. Il suo è un contributo enorme, ha soltanto iniziato a dispiegarsi.

Bill Bernbach, un tuo punto di riferimento e tanti altri grandi copywriter sono statunitensi. Tu sei riuscito a realizzare la tua carriera restando in Italia, senza accrescere il numero di “cervelli in fuga”. Quali consigli ti senti di dare ai tanti ragazzi brillanti del nostro paese che vogliono realizzarsi come professionisti in Italia valorizzando il proprio Paese?

Domanda difficile, alla quale non posso rispondere con ipocrisie e incoraggiamenti paternalistici. L’Italia di oggi è una realtà difficile, per certi versi ostile? Sì, non si può non dirlo. Eppure l’Italia è anche un paese incredibile, con caratteristiche uniche. Da un lato viviamo immersi in un’economia depressa e in una crescente mancanza di civismo, oltre a essere, aggiungerei, oppressi da un disincanto che sta diventando una vera palla al piede nazionale.

Dall’altro lato però c’è molto. E il bollettino dei mali nazionali è talmente martellante che rischiamo di perdere di vista ciò per cui l’Italia ha un posto nel mondo.

Se mi permetti la tirata, l’Italia è una patria dell’uomo, delle sue libertà e delle sue aspirazioni. Per quanto l’umanesimo vada vivificato e rinnovato, sappiamo che è nato nelle nostre strade. Questa tradizione profonda la viviamo ogni giorno, e non è inutile guardarsi con gli occhi del forestiero: quando per esempio considerano come gli italiani sappiano dare piacere alla propria esistenza giornaliera, o siano capaci di trovare soluzioni imprevedibili o non perdano il loro buonumore, al netto del folklore e dei luoghi comuni, quello che resta è la nostra capacità di far risuonare le corde umane nella modernità. L’Italia è anche Munari, Calvino, Fausto Melotti, Carlo Scarpa, Rossellini, e metto insieme cose molto diverse ma accomunate dalla capacità di tradurre il moderno in nuovo stupore, unendo analisi ed emozione. E’ un bagaglio indispensabile per affrontare il futuro, che è non fatto solo di numeri, non lo sarà mai.

Perciò, anche se non sono capace di dare un consiglio e dire se partire o no, perché la posta in gioco per un ragazzo è altissima, e nonostante io creda che vivere almeno un periodo della propria vita all’estero sia importante perché questa è una società globale e non c’è motivo di richiudersi nei confini, trovo giusto ricordare che l’Italia non sarà mai un paese qualunque. L’Italia resta fondamentale, per tutti.

Grazie ancora Giuseppe da tutti noi del team Tels!